Tab Article
Nel 2008 un team di neurologi cognitivo-comportamentali condusse una ricerca sull'epidemicità del ridere analizzando la laughter chain, un curioso esperimento scientifico-pubblicitario realizzato da Skype: dove un soggetto guardava nello schermo una persona sbellicarsi e, sbellicandosi a sua volta, contagiava lo spettatore successivo, con 'effetto domino' - o meglio `effetto farfalla', considerata la curva esponenziale dell'intensità delle reazioni - potenzialmente infinito. Questa bizzarria, che si può agevolmente trovare in rete, diviene una cosa molto seria se la si elegge a emblema perturbante di quanto accade nell'attuale "società dello spettacolo": sulla cui bocca il riso costantemente abbonda, ora secondo la logica, o l'illogica, di una euforia generalizzata e automatica, tutta risolta nei territori limacciosi della bétise, ora mediante operazioni artistiche raffinatissime e stranianti, che ricomprendono l'intera gamma dei media, dalla letteratura all'audiovisivo, dal cinema al teatro, dal fumetto al web. Qualche anno fa un drappello di giovani e appassionati "filologi moderni" decise che questo fosse un terreno vergine e fecondo, degno di essere indagato. Il volume, che documenta quella esperienza svolta a margine di un corso universitario di Letterature comparate, si compone di cinque sezioni: "Umano, troppo disumano", su alcune icone dell'estremo contemporaneo (David Foster Wallace, lo Sgargabonzi, Zerocalcare...); "Il riso è una cosa serial", sugli usi dell'umorismo nell'audiovisivo; "Perdita d'aura", sulla satira e la parodia ad opera di poeti e cantautori; "Ironia in figuris", sull'abbraccio mortale tra testo e immagine; "Du meme au meme", sulle derive incontrollate e i decorsi virali del riso social.